Gianluigi Buffon - La solitudine dei numeri uno 1/2

RubricaCampionario - Carico e scarico di calciatori che malgrado tutto non dimenticheremo mai

"Era come se la mia testa non fosse mia, ma di qualcun altro, come se fossi continuamente altrove." (da "Numero 1", autobiografia di Gianluigi Buffon)

Dieci anni orsono ho partecipato a un evento inserito ufficialmente nel Guinness World Book of Records. O almeno, così mi giurarono. Sia ben chiaro che lo rivelo con un pizzico di vergogna e nell'intima convinzione che questo genere di manifestazioni rappresentino per ipostasi il capolinea della società occidentale, ovvero la triste constatazione che, per fare qualcosa di veramente nuovo, qualcosa che nella storia dell'umanità ancora non è stato fatto, l'unico modo possibile sia inventarsi una stramberia senza alcun senso.
Fui arruolato, insieme ad alcuni amici, per partecipare alla più grande partita di calcio mai disputata sul suolo terrestre. L'aggettivo grande designava, a scanso di equivoci, la quantità. La quantità dei giocatori, degli arbitri, delle porte, dei palloni, dei metri quadri del terreno di gioco, ricavato in un piccolo aeroporto del Varesotto. Non ricordo con esattezza i numeri, ma suppongo si trattasse di duecento giocatori per squadra (io vestivo la 135), una ventina di arbitri e palloni, tre o quattro porte ad ogni estremità e più di due chilometri quadri di superficie. A riprova dell'internazionalità dell'evento, si sfidavano due squadre rappresentanti le province di Como e Lecco.
Tra di voi, qualcuno potrebbe ipotizzare si trattasse di un pionieristico flash-mob ma noi, ve lo assicuro, eravamo molto ingenui. Potrei sbagliarmi, ma credo fummo convinti a partecipare dall'astuta promessa della mirabolante presenza di diversi nomi importanti del calcio che conta. Promessa mantenuta, mi par di ricordare, grazie a un paio di divi ottuagenari e qualche neopensionato bomber delle serie minori.

Il nostro gretto materialismo non trovava comunque sponda nei molti partecipanti all'evento sul cui volto risplendeva l'allegra ebetudine dell' "io c'ero". Un iocerismo genuino, ancora non limitato dalla possibilità di postare le fotografie su Facebook in tempo reale, ma tutto proiettato al futuro, al momento indimenticabile del racconto del momento indimenticabile.
E indimenticabile fu, se solo lo si fosse considerato con i canoni del teatro dell'assurdo. L'allegoria era potente, e nemmeno tanto vuota. Il fatto che il campo fosse incredibilmente esteso, ad esempio, non aveva alcuna funzione. Non si giocava nello spazio, ma per la palla. Se la partita si fosse disputata su un normale campo da calcio, sarebbe andata esattamente allo stesso modo. Tutti volevano la palla. Un solo tocco dà senso a un pomeriggio. Perciò, attorno alle numerose sfere, si accendevano mischie furibonde, capannelli di questuanti, manifestazioni di protesta. I movimenti erano rigorosamente limitati dal poco spazio a disposizione, la coordinazione necessaria per effettuare un lancio impossibile da ottenere. Di tanto in tanto un arbitro che si prendeva troppo sul serio aveva addirittura il coraggio di fischiare un fallo. Marziale, imponeva le distanze e, dopo un conciliabolo di dieci minuti per decidere chi avesse conquistato il diritto di calciare, il gioco riprendeva uguale, spostandosi semplicemente da un'altra parte. Dopo qualche minuto, giusto il tempo di decretare con fermezza un rigore, che venne incredibilmente ciccato, i fischi del suddetto vanitoso vennero semplicemente ignorati.
Di tanto in tanto, incrociavo sempre lo stesso amico che, invasato, scuotendomi le braccia, mi domandava: "Ma tu l'hai toccata la palla?" Gli mentivo, millantando improbabili colpi sotto e tunnel che diventavano trafori, con decine di persone gabbate. Lui allora mulinava lo sguardo in tutte le direzioni e fuggiva alla rincorsa, rimproverandomi la mancanza di serietà.
Si giocava a due porte sole. Nel senso che il gioco era concentrato esclusivamente nelle due aree di rigore. I palloni erano stati portati lì da manipoli di panzoni al fischio d'inizio e da lì non si muovevano. Probabilmente erano un numero pari per entrambe le aree, dato che, per la legge dei grandi numeri, finalmente manifestatasi davanti ai miei occhi, la partita finì in parità (sebbene col sospetto che nessuno stesse contando i goal). Il motivo per cui i palloni rimanevano nelle aree è piuttosto semplice. L'uomo, nel suo stato di natura, è attaccante. Così gli uomini di ciascuna squadra dedicati alla fase offensiva erano circa quattro volte quelli che si impegnavano a difendere la porta (dato desunto dall'osservazione del fenomeno e dal punteggio ufficiale di tipo cestistico). Capitava quindi che il portiere ricacciasse la palla a qualche decina di metri dalla porta con un rinvio, causando il galoppo di mandrie di umani, ma in pochi secondi la sfera ritornava in area.

Fatto sta che io avevo sempre giocato a centrocampo, e invece lì non c'era nessuno. Sicché, per fronteggiare l'assurdità della situazione, feci ciò che mi era abituale: occupai il mio spazio. Una nemmeno tanto breve passeggiata mi condusse all'heartland del calcio, un posto che mai prima e mai più sarebbe stato così incredibilmente vuoto. In questo splendido isolamento (e prima di accorgermi di essere diventato lo zimbello di una simpatica banda di ragazzoni) capii qualcosa che mi apparve importante. Lontano dal furibondo accanirsi dell'uomo contro la palla, in serena osservazione delle vicende che lì si sviluppavano, sperimentai quella speciale solitudine che qualcuno ha attribuito all'ala destra, e che invece è solo del portiere. Compresi, insomma, che mentre si gioca, si può pensare ad altro, ai problemi della vita, al passato, al futuro, al sesso, all'amore. E anche alla morte. Mi domandai insomma: "Ma come cazzo fanno i portieri?"

Io in porta non c'ero mai voluto andare, nemmeno quando ero il più piccolo e mi sarebbe toccato. Non se ne parla, mia mamma non vuole. Mi avevano spiegato che, comunque vada, se si perde è colpa del portiere, se si vince è merito degli altri. Non so se lo trovate un argomento convincente. Io sì. Mi avevano detto che i portieri sono tutti matti. E ci credo! Sarà mica una cosa normale, quella. Quell'interferenza continua che reclama a sé i pensieri. Se non lo sei già, c'è da diventarci matto. Non puoi partecipare al gioco, non puoi cambiare nulla di quello che succede in campo. Puoi solo guardare. Devi stare concentrato, per quando arriva il tuo turno. E' una parola.
Ci ho provato, poi. Mentendo sulle mie capacità, ho partecipato a un torneo estivo, giocando in porta. Ricordo il fischio del pallone che si insacca passando a un centimetro dalle mie orecchie, l'incredulità dei compagni di squadra nello scoprire la mia truffa, il dileggio di qualche anziano che stazionava dietro alla porta, ma soprattutto la tristezza totalizzante, la solitudine assurda che provai. Mi è sembrata una questione di punti di vista, proprio fuor di metafora. La prospettiva, in mezzo ai pali, è tutta un'altra. Il calcio non è quel gioco bellissimo che si vede dagli spalti o correndo in mezzo al campo, ma assomiglia parecchio a quel delirio da Guinness dei primati da me sperimentato. Tutto sembra più prevedibile, gli uomini, spesso dominati dalla paura, sembrano obbligati a fare sempre le stesse cose, ottenendo gli stessi risultati, e nondimeno ci riprovano. Una fatica di Sisifo. Un'assurdità. Quando arriva un tiro in porta, non si tratta nemmeno di essere concentrati. Si tratta di decidere se parare quel tiro valga davvero la pena, se cambi qualcosa, poi in fondo. Il portiere non gioca. Il portiere non vive. E' costretto a guardare la vita. Ecco la sua condizione umana. E' continuamente minacciato dalla paralisi. Quando dici "non si è neanche mosso". Bisogna trovare un motivo per farlo.
Ci sono portieri che non vedono l'ora di "uscire", a costo di sbagliare tutto, e portieri che invece non "escono" mai. Guardali in questa ottica.

E' una questione di motivazioni. Essere lucidi è una gran fregatura, devi trovare uno stato mentale diverso. Vi siete mai chiesti perché la stragrande maggioranza dei portieri, assai più degli altri calciatori, spesso offra grandi prestazioni solo per un paio di stagioni, per poi diventare preda di una discontinuità quasi intrinseca al ruolo? Per me, la risposta è semplice, dopo queste esperienze. Stare per vent'anni in mezzo ai pali e in tutto questo tempo essere sempre il migliore richiede uno sforzo sovrumano, una battaglia interiore da combattere con tutte le energie possibili. E' un'impresa umana, con pochi paragoni, se non in altri sport, come il tennis. Nell'osservare qualcuno dei migliori portieri del calcio moderno, mi sembra di vedere personaggi che rivelano una psicologia adatta all'impresa, pazzi scatenati come Schmeichel, orchi dallo sguardo fisso come Kahn, avventurieri come Barthez. Ma cosa dire invece del più forte di tutti, il nostro Gigi Buffon, un uomo che invece ai miei occhi ha sempre rivelato sensibilità, intelligenza, complessità interiore? Un uomo che ha sperimentato (e raccontato, con coraggio e profondità) la depressione, che rimugina di continuo sull'innocenza perduta ("io sono un malinconico, un nostalgico: pensavo sempre, e anche troppo, ai tempi della scuola, ai giorni di Italia '90, all'infanzia perduta") ?

Se penso a tutto il tempo che ha trascorso tra i pali, a tutta quella solitudine, mi vengono i brividi.

Per questo sono disposto anche a perdonargli quel
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"Da due o tre anni, ormai, sono una persona equilibrata, anche se qualche scheggia di pazzia ce l'ho sempre" (Gianluigi Buffon a Repubblica, febbraio 2008)



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