Il fenomeno-Liverpool, le emergenti e il processo di crescita

Il Liverpool è allenato da un grande allenatore, uno che ai tempi del primo Chelsea di Mourinho allenava le giovanili dei Blues.
Ma questi, a differenza dell'altezzoso portoghese, fa giocare a pallone le sue squadre.
Rodgers faceva giocare benissimo lo Swansea e, dopo un anno di apprendistato, ha insegnato calcio anche a chi privilegiava da sempre furore e fisicità in puro stile british.
Anfield Road era probabilmente rimasto l'ultimo "tempio" del football inglese più classico e tradizionale, a dispetto degli anni basati sulle colonie spagnole (Benitez) e francesi (il periodo-Houllier).
Questo nordirlandese educato è riuscito ad inculcare l'idea di giocare sempre la palla ad atleti tecnicamente approssimativi come Skrtel, Sakho, il mediano Henderson e il non trascendentale giovane terzino Flanagan, chiamato a sostituire il titolare José Enrique, ai box causa infortunio fino a fine stagione.
Certo, questa squadra ha anche buoni giocatori e qualche fuoriclasse.
Nella prima categoria entrano di diritto: Glen Johnson, promettente terzino ex Chelsea della prima era-Abramovich che sta recuperando i crediti perduti in passato; Joe Allen, giovanotto tutto fare "pieno di fosforo" (come si usava dire una volta...); Raheem Sterling, ventenne, giamaicano - quindi rapidissimo - e autore di gol e prestazioni scintillanti; Philippe Coutinho, spesso determinante, l'ennesimo caso di giovanotto di belle speranze passato dal "tritacarne" della Milano nerazzurra e "sbolognato" dopo una sola stagione nella migliore tradizione interista.
Ironia della sorte, Sterling, Allen e Flanagan sono eredità di Rafa Benitez e del suo ex football strategy director Damien Comolli, l'uomo che aveva approntato uno sterminato sistema di banche dati su migliaia di calciatori.
I fuoriclasse sono due: "Stevie G", il capitano, l'anima del gruppo e Luis Alberto Suarez, detto "El Pistolero", il trascinatore che quest'anno ne ha messi giusto 30 - senza rigori - alle spalle dei portieri avversari.
C'è poi Sturridge, secondo marcatore del club con 20 gol, che a 24 anni merita la definizione di grande giocatore, e di certo Ancelotti - che lo volle con sé al Chelsea - la pensava allo stesso modo.
Come gioca il Liverpool?
Difesa a quattro con due esterni che spingono (Johnson e - quando disponibile - José Enrique, molto meno Flanagan), due centrali poco mobili ma fisicamente sovrastanti (Skrtel e Sakho, in alternativa Agger e Kolo Touré), Gerrard "volante" davanti alla difesa con Henderson a far legna in mezzo al campo dietro ai tre piccoletti aggressivi e fastidiosi (Coutinho, Sterling e Sturridge, con quest'ultimo agisce più avanzato) che puntano in verticale e in fase di non possesso portano un pressing asfissiante sulle difese avversarie.
Impressiona di questo Liverpool soprattutto una cosa: l'approccio alle gare, a ritmi talmente folli che l'avversario difficilmente riesce a contenerli.
I primi tempi dei Reds - almeno per quel che riguarda il 2014, in cui i ragazzi di Rodgers sono imbattuti - sono solitamente proibitivi per qualunque avversario che, se riesce a rimanere in partita, può nutrire qualche speranza nell'ultima mezz'ora.
 
Ho parlato di Liverpool perché il ritorno dei reds a certi livelli dopo tanti anni ricorda molto la rinascita di altri club che in questa stagione hanno ripreso a frequentare posizioni di prestigio.
Parlo del Liverpool, della Roma, persino del Monaco dell'ennesimo oligarca russo che investe nel calcio, e vorrei esprimere qualche perplessità sulle prestazioni entusiasmanti che hanno offerto queste realtà (soprattutto Liverpool e Roma).
La prima perplessità riguarda il calendario: se queste squadre hanno destato grande impressione in questa stagione potendo dedicarsi solo al fronte interno (e nessuna di loro è arrivata in finale alla coppa nazionale, men che meno inglesi e monegaschi sono arrivati in finale della rispettiva coppa di Lega) resta la curiosità su cosa potranno fare l'anno prossimo con gli impegni europei in arrivo.
E' chiaro che l'inizio di un percorso si porta dietro l'effetto-novità, la spregiudicatezza figlia del non aver nulla da perdere e la consapevolezza che certe annate nate bene basta poco per farle diventare eccezionali.
Eccezionali, appunto, da "eccezione", non la regola.
Ma da luglio, evaporati i complimenti e le opportune vacanze, arriverà la resa dei conti, quando per queste squadre ci sarà necessità di confermarsi o, per usare una metafora molto cara a Conte, "alzare l'asticella".
Di conseguenza per questi club ci sarà l'obbligo di crescere per non finire come quei cantanti ricordati per la classica "one hit wonder" e poi finiti nel dimenticatoio.
In proposito, la Juve di Conte, regredita sul piano dello spettacolo rispetto alla prima luccicante edizione, è un esempio chiaro di quanto ho appena scritto: gli avversari ti studiano e attuano le loro contromisure, se continui a vincere si impegneranno sempre di più nel cercare di "imballare" il tuo ingranaggio.
A livello di risultati la squadra continua a migliorare: vince in Italia collezionando più punti di anno in anno e in Europa fa più strada rispetto alle connazionali da due stagioni.
Certo, l'incidente di Istanbul è un macigno pesante ma, seppur il sottoscritto non si esalti per l'Europa League, devo riconoscere che l'atteggiamento tenuto in questa Coppa è molto positivo, direi addirittura "allenante" - per dirla alla Capello - per il futuro.
Perché, se il livello qualitativo è indiscutibilmente inferiore, il numero di partite (un turno in più, con conseguente riduzione delle già poche settimane libere per allenarsi) e i giorni delle partite (giovedì, con alcuni match programmati per domenica, e quelli al lunedì giocati conoscendo già il risultato dell'avversario diretto in campionato) hanno sicuramente allenato fisico e carattere del gruppo.
Quindi fare l'abitudine agli impegni ravvicinati è un passo in più cui saranno chiamati questi club emergenti, e giocare una quindicina di partite in più non è proprio semplice.
Gli esempi da seguire ci sono, oltre alla Juventus: il Dortmund di Klopp, due scudetti e due secondi posti dietro ad un Bayern che fattura tre volte e più, una gran figura europea e la valorizzazione di tanti talenti; l'Atlético (e non solo quello di Simeone) che viene da 4 successi europei negli ultimi 5 anni.
Chi invece non è da seguire?
Ovviamente, gli sceicchi!
Il City e il PSG hanno fallito clamorosamente in misura inversamente proporzionale ai loro investimenti, discorso che vale anche per il Real Madrid, da dodici anni senza titolo europeo e responsabile dell'esplosione dei prezzi molto prima dell'avvento dei petrolieri arabi.
Altro esempio da non seguire è l'Arsenal: dopo la generazione degli Invincibili del 2004-06 (apice: la finale parigina di C.L. persa contro il Barcellona), sarà per via dell'investimento-Emirates Stadium, sarà per la sfortuna di aver perso per infortuni gravi certi giocatori nei momenti cruciali delle stagioni, ma nove anni senza mettere mano su un trofeo (e con una finale di FA Cup alle porte i gunners tocchino ferro...) sono un periodo inaccettabile anche per un manager stimato e apprezzato come Wenger, in carica dal 1996 ma forse giunto al capolinea.