Verso i mondiali /3

Uruguay, seconda parte.

I quattro gironi avevano dunque espresso le proprie vincitrici: Brasile, Svezia, Spagna e Uruguay presero parte al girone finale, che si giocò una settimana dopo la conclusione della prima fase. Fu allora che venne fuori prepotentemente la potenza dei padroni di casa. Uno strapotere fisico e tecnico che si riflettè nei risultati delle prime due partite: Brasile-Svezia 7-1, Brasile-Spagna 6-1. La bellezza di 13 gol fatti contro 2 subiti. Le poche immagini che si trovano in rete ci raccontano di una squadra che andava a un'altra marcia rispetto agli avversari, con tocchi smarcanti, conclusioni imparabili di rara precisione e potenza, giocate d'alta scuola. Gli attaccanti brasiliani affondavano come un coltello nel burro nelle difese avversarie, prendendole sempre alla sprovvista con improvvisi inserimenti che lasciavano gli esterrefatti difensori immobili come statue. Di contro l'Uruguay faticò non poco. Se da un lato la fortuna del sorteggio li aveva aiutati a giungere alla fase finale più riposati, la Celeste si trovò all'improvviso a dover fare sul serio. Andata in vantaggio con un gol dell'imprendibile ala Alcides Ghiggia, fu rimontata dalla Spagna nella prima partita del girone finale, per poi pareggiare grazie a un gol del capitano Obdulio Varela, di cui avremo modo di parlare in seguito. Battendo allo scadere la Svezia grazie a un'uscita discutibile del portiere scandinavo, riuscì in qualche modo a rimanere a un solo punto dal Brasile prima dell'ultima giornata, rimandandone la festa. Di qualche giorno? No, di otto anni.
 
L'ultima partita del Mondiale del 1950 si giocò il 16 di luglio, a Rio de Janeiro. Lo stadio fu, neanche a dirlo, il Maracanà, dove il Brasile fino ad allora aveva sempre vinto, e che per l'occasione ospitò 200.000 spettatori, record tuttora imbattuto per una partita di calcio. Purtroppo non tutti tornarono a casa. Come detto era l'ultima partita del girone, non una finale, ma le contingenze l'avevano resa tale, praticamente. Il Brasile guidava la classifica con 4 punti, seguito dall'Uruguay con 3. Alla corazzata brasiliana bastava un pareggio per diventare campione e scatenare la festa tanto agognata e a lungo covata. Il Brasile era un calderone che ribolliva d'attesa, al punto che la gioia non potè che traboccare dal coperchio nei giorni precedenti la partita. Per l'occasione fu organizzato un vero e proprio carnevale, con i carri che sfilarono già dal mattino. Una quantità spropositata di magliette celebrative era già stata venduta. Per le radio di Rio imperversavano le canzoni che magnificavano la gloria della Nazionale che di lì a poco avrebbe dovuto vincere finalmente il suo primo titolo mondiale. Un paese che entrava nell'era moderna, e voleva mostrarsi al mondo.
 
L'Uruguay invece aveva pochi calcoli da fare, doveva vincere. Ma la vittoria era al di là di ogni previsione, persino per i dirigenti della Federazione uruguayana, i quali, si dice, chiesero alla squadra di finire alla grande quel Mondiale... cercando di non perdere più di 3-0! In realtà quell'Uruguay, e oggi lo sappiamo, era una squadra ben più forte di quanto si pensasse, annoverava fior fior di campioni. L'asse portante era formato dai giocatori del Peñarol di Montevideo, il club più titolato d'Uruguay, che nel '50 si apprestava ad aprire uno dei tanti cicli vincenti della sua storia. Lo zoccolo duro comprendeva i migliori giocatori del campionato, a cominciare dal portiere Maspoli, che sarebbe diventato una leggenda dei gialloneri, vincendo tutto sia da giocatore che da allenatore. Il terzino Andrade era il nipote dello storico capitano che aveva guidato l'Uruguay al trionfo nelle Olimpiadi e nel Mondiale del 1930. Le due punte di diamante della squadra erano il regista Schiaffino, un fenomeno dotato di piedi estremamente educati e, soprattutto, di una visione di gioco fuori dal comune, che lo porteranno a diventare uno dei più forti giocatori della storia del calcio, e l'ala Ghiggia, rapidità al servizio della tecnica, col vizio del gol e inarrestabile nell'uno contro uno grazie ad un repertorio di finte tanto vasto quanto efficace: entrambi dopo il Mondiale sbarcarono nel campionato italiano, rispettivamente nelle fila del Milan e della Roma, con alterne fortune. Insomma non proprio il classico agnello sacrificale, eppure tanta era la convinzione nella forza del Brasile che tutti davano per inevitabile il trionfo dei carioca.
 
Tutti tranne uno, e si dà il caso che quell'uno fosse il capitano dell'Uruguay, "El negro Jefe" Obdulio Varela. Un personaggio che meriterebbe un capitolo a parte. Anche lui una leggenda del Peñarol, guidò lo sciopero dei calciatori uruguayani che durò dal settembre 1948 al maggio 1949: si chiedevano maggiori garanzie e libertà contrattuali da parte dei club (che tra le altre cose all'epoca potevano rescindere i contratti unilateralmente, o trasferire i propri calciatori coercitivamente, senza che questi ottenessero nulla. Altro che Bosman...). Rinunciò una volta a metà del premio elargitogli dal Peñarol dopo la vittoria del campionato, che era doppio rispetto a quello dei compagni essendo il capitano, in quanto riteneva che siccome giocava esattamente come gli altri gli spettasse lo stesso premio dei suoi compagni, non un peso di più. In una partita, dopo un duro contrasto di un avversario andò a dire all'arbitro: "Se uno dei nostri fa un fallo del genere lo espella per cortesia. Un giocatore che entra così non è degno di stare sul campo". Si ritirò in forte dissenso con la società per non indossare una maglia con lo sponsor.
 
Questo e molto altro era il numero 5 dell'Uruguay, che da solo cambiò le sorti del Mondiale del 1950. Lo fece grazie a una grande intuizione: Varela fu l'unico a capire che sul piano tecnico le due squadre potevano benissimo affrontarsi alla pari, ma la vera partita si giocava su un altro piano, quello psicologico. L'Uruguay aveva il vantaggio di essersi goduto il ritiro in piena tranquillità, ospitato nel campo del Palmeiras, la squadra degli immigrati italiani, durante il ritiro, mentre i giocatori brasiliani non avevano avuto un momento di pace a causa della passione esuberante del loro popolo e del viavai di personaggi politici, ansiosi di raccattare consensi facendosi vedere in pubblico in compagnia dei campioni annunciati. Sull'altro piatto della bilancia però pesava un fattore molto più importante: il Maracanà. Il Brasile lì aveva sempre vinto, spinto dalla folla di 150.000 tifosi in visibilio. E all'epoca, come detto, il fattore campo contava molto di più, non solo in termini di "bolgia". Se avete presente come la Juventus viene accolta di volta in volta a Napoli, Firenze, Bologna o Catania, potete immaginarvi a cosa andavano incontro gli avversari che dovevano affrontare "gli eletti" del popolo brasiliano, non solo arrivando allo stadio, ma anche all'interno di esso, considerando anche che i mezzi di cui disponevano le forze dell'ordine, che a volte chiudevano non uno, ma entrambi gli occhi, erano decisamente in numero inferiore rispetto a quanto accade ora. Era prassi, ad esempio, che durante il riscaldamento la squadra che affrontava il Brasile dovesse fare attenzione ai petardi che gli venivano lanciati addosso dagli spalti.
 
In sintesi quel 16 luglio 1950 la Celeste non affrontava semplicemente una squadra, ma giocava contro un intero popolo. Valera questo lo sapeva, e la leggenda vuole che prima di scendere in campo vietò categoricamente ai compagni visibilmente impauriti di alzare lo sguardo verso le tribune. Finché si giocava 11 contro 11 c'era sempre speranza, ma se la partita fosse diventata 11 contro 200.000 non ci sarebbe stata alcuna via di scampo. E di darla vinta a quei dirigenti, suoi compatrioti che li avevano dati per spacciati prima ancora di giocare, "el Jefe" non ne aveva alcuna intenzione. I frutti di quella intuizione cominciarono a vedersi già nel primo tempo. L'Uruguay si difese con ordine dalla prevedibile foga dei brasiliani ansiosi di far esplodere la gioia della marea degli spettatori, non concedendo spazi agli inserimenti dei brasiliani e senza disdegnare il gioco duro, ma senza mai eccedere nella scorrettezza. Con un capitano come Obdulio Varela non te lo puoi permettere. Il primo tempo terminò a reti bianche, addirittura fu l'Uruguay ad andare più vicino al vantaggio colpendo il palo sul finire della prima frazione.
 
Il Mondiale del 1950 si decise negli ultimi 45 minuti. Per la precisione al secondo minuto del secondo tempo, ma non per via del gol di Friaça, che esattamente dopo 2 minuti dall'inizio della ripresa piazzò un diagonale preciso che si insaccò nell'angolo basso, alla destra di un Maspoli non incolpevole in quella circostanza. A deciderlo fu invece il numero 5, il capitano, neanche a dirlo, Obdulio Varela che, dopo aver raccolto il pallone da in fondo alla rete e averlo lentamente lanciato verso il centrocampo, si diresse verso l'arbitro, per protestare. Una mossa da piangina potremmo pensare oggi, in realtà una mossa geniale, con cui diede scacco matto al Brasile. Le cronache riportano che, vedendo il guardalinee alzare ed abbassare velocissimamente la bandierina, a Varela venne in mente di chiedere un fuorigioco che egli stesso sapeva bene non esserci. E badate bene, non per cercare un vantaggio illecito, che peraltro non arrivò. Lo scopo di quella protesta era perdere tempo.
 
Ora può sembrare strano che la squadra in svantaggio, quella che deve rimontare, perda tempo con proteste inutili. Ma in quella circostanza invece, una mossa che può sembrare folle, fu in realtà la mossa vincente. La ratio è ben spiegata in questa interpretazione di Toni Servillo, che recita un breve monologo nella parte di Varela stesso. In sintesi quello che voleva ottenere "el Jefe" era far "raffreddare" gli avversari, spezzar loro il ritmo in modo da non lasciare che, sull'onda dell'entusiasmo per il vantaggio, li travolgessero. Lasciar ripartire la partita immediatamente voleva dire spalancare il cancello all'invasione dei brasiliani, mentre quel cancello finora gli uruguayani erano riusciti a tenerlo chiuso, nonostante quel gol avesse aperto una piccola breccia. E funzionò. Il Brasile si riversò nervosamente in attacco ma senza riuscire a giungere al raddoppio, mentre l'Uruguay riuscì a gestire senza scomporsi il momento, lasciando sfogare la bestia prima di ricacciarla indietro e richiuderla in gabbia.
 
Il resto venne di conseguenza. Col passare dei minuti quella che doveva essere l'arma in più, la spinta del pubblico, si rivelò invece un boomerang. L'aspettativa del pubblico non fece altro che innervosire ancor di più i giocatori in maglia bianca che, nonostante fossero in vantaggio, sentivano la pressione di dover stravincere per poter regalare al proprio popolo, cui la semplice vittoria non bastava, il trionfo che si aspettavano. Di contro gli uruguayani andavano via via acquistando confidenza, e quando fu il momento colpirono con l'unica arma che avevano a disposizione: il contropiede. Alcides Ghiggia si dice avesse ricevuto una bella strigliata dal suo capitano negli spogliatoi, dopo che nei primi 45 minuti era stato un'ectoplasma in campo. Che sia vero o no, non lo sappiamo; quel che è certo è che il suo zampino c'è in entrambi i gol con cui l'Uruguay ribaltò le sorti di quella partita, di quel Mondiale, di quella festa. Al ventesimo della ripresa si liberò del proprio marcatore scartando sulla destra, prima di servire Schiaffino che si era intanto portato in avanti. Di fronte a lui c'era un altro difensore, pronto a contrastarlo, ma Schiaffino lo prese sul tempo, calciando al volo col piede destro fatato che si ritrovava, e mandò il pallone all'incrocio dei pali dove il portiere Barbosa non potè arrivare. 1-1, il Brasile era ancora campione ma tra gli spettatori, oltre che tra i giocatori, cominciava a serpeggiare l'insicurezza, che ben presto divenne paura.
 
"Solo tre persone hanno zittito il Maracanà: Frank Sinatra, il papa Giovanni Paolo II ed io". Con queste parole Alcides Ghiggia descrisse magistralmente quello che avvenne 13 minuti dopo. L'ala numero 7 prese palla e dopo una serie di finte lasciò sul posto il marcatore, bruciandolo in velocità sullo scatto. Qui avvenne l'imponderabile. Non si sa se abbia fatto apposta o no, Maspoli in un'intervista disse che era il modo tipico di calciare di Ghiggia, fatto sta che dalle immagini si vede chiaramente una zolla alzarsi nella corsa e Ghiggia che, perdendo il passo, calciava il pallone prendendolo di collo esterno, verso il primo palo. La sfera fece un paio di rimbalzi prima di infilarsi beffarda sul palo del portiere, preso alla sprovvista giacché da quella posizione defilata si aspettava un cross in mezzo invece della conclusione. 2-1 per l'Uruguay e sul Maracanà calò il silenzio, un silenzio irreale, che più di qualsiasi parola esprimeva la delusione, la rabbia, la sorpresa di quella tragedia totalmente inaspettata. Come se quelle 200.000 persone si fossero svegliate tutte insieme da un sogno, per scoprire quanto la realtà fosse amara. E purtroppo al fischio finale ci fu chi tanta amarezza non fu in grado di sopportarla. Decine di persone persero la vita colte da infarto, altre si gettarono dalla disperazione giù dalle gradinate dello stadio. Molti di più furono coloro che persero tutto per aver scommesso sulla vittoria del Brasile.
 
Il carnevale, le magliette, persino i giornali del giorno prima celebravano già i futuri campioni. E oggi sappiamo che nel calcio queste cose si pagano care. La miglior testimonianza dell'impreparazione con cui venne accolta la vittoria dell'Uruguay, che veniva considerata fuori da qualsiasi logica, fu la "cerimonia" della premiazione. Uso le virgolette perché, per l'appunto, una cerimonia non ci fu. Le autorità brasiliane lasciarono lo stadio nello sgomento, mentre Jules Rimet dovette entrare in campo da solo per consegnare, tra le lacrime di gioia degli uruguayani e quelle di disperazione dei brasiliani, la coppa direttamente in mano a Varela, mentre tutto il Maracanà assisteva ammutolito. Non era stato nemmeno preparato un discorso per celebrare la vittoria della Celeste, mentre quello scritto in portoghese che avrebbe dovuto incoronare il Brasile campione del Mondo fu da mandare al macero. Rimet stesso, in una sola frase, sintetizzò perfettamente la situazione: "Tutto era stato previsto, tranne la vittoria dell'Uruguay". Errore non da poco per il quale il destino, anche in questo caso, presentò subito il conto più salato che si potesse immaginare. Persino troppo salato. Forse per questo, alcuni anni dopo, il Fato decise di risarcire il Brasile, facendo nascere una stella che in poco tempo avrebbe guidato la Nazionale, che da quel 16 maggio 1950 abbandonò la maglietta bianca per quella verdeoro che utilizza ancora oggi, a diventare la più vincente di tutti i tempi: Edson Arante Do Nascimiento, al secolo Pelé.
 
Ben peggiore fu il destino del portiere di quel Brasile, Moacir Barbosa, che diventò per una nazione intera il capro espiatorio di quella disfatta storica, e la cui tragedia umana è raccontata in un bellissimo libro di Darwin Pastorin. In questa sede ricordiamo solo un episodio, raccontato dallo stesso Barbosa in un'intervista: oltre trent'anni dopo il Maracanazo, negli anni '80, in un negozio un'anziana signora lo riconobbe e, indicandolo, disse al nipote: "Guarda, quello è l'uomo che ha fatto piangere il Brasile". Una sorte ingiusta di cui però non ci possiamo occupare in questa sede. Qui, di quella partita in cui a passare alla storia furono soprattutto gli sconfitti, celebriamo invece i vincitori, l'Uruguay di Obdulio Varela.
 
Oggi, 64 anni dopo, il Mondiale si gioca di nuovo in Brasile e l'Uruguay è nel girone con quelle che allora furono le due grandi delusioni, l'Italia orfana del Grande Torino, e l'Inghilterra sconfitta a sorpresa dagli Stati Uniti. La squadra non è più formata da giocatori tutti provenienti dal Peñarol, ma da campioni che giocano nei maggiori campionati europei: alcuni di loro li conosciamo molto bene. Col suo attacco guidato da giocatori di grande esperienza internazionale come Cavani, Suarez e Forlan, l'Uruguay tenterà di ripetere il successo del 1950, che è stato anche l'ultimo Mondiale vinto dalla Celeste. Con la speranza che però una tragedia come quella del Maracanazo non accada mai più, per quanto impensabile possa essere il risultato finale.
 
Calciatori famosi: Cavani (Palermo, Napoli, Paris Saint-Germain), Suarez (Ajax, Liverpool), Caceres (Juventus), Forlan (Manchester United, Villareal, Atletico Madrid, Inter)
Miglior piazzamento ai Mondiali: Campione del Mondo ad Uruguay 1930 e Brasile 1950
Obiettivo massimo ai Mondiali: Giocare la finale
Girone e avversari: Gruppo D con Italia, Inghilterra e Costa Rica.