Elogio di Bettega, Anima Mundi Bianconera

BettegaChe notte quella dell’8 dicembre 1985. Alle 4 antimeridiane metà dell’Italia sportiva è sveglia e si stropiccia gli occhi per seguire la Juve che, a Tokyo, sfida l’Argentinos Juniors nella finale della Coppa Intercontinentale. Il campo spelacchiato, le magie di Platini (quel gol annullato…), la rete impossibile di Laudrup e l’incessante gracchiare delle trombette giapponesi si apprestano a diventare leggenda.
A raccontare la partita la voce metallica di Giuseppe Albertini e la cadenza elegante di Roberto Bettega. E’ con loro che trepidiamo davanti a quelle pastose immagini da tv d’altri tempi ma è soprattutto grazie a Bobby Goal se ci sentiamo così vicini alla Juventus. Lui è lì, e idealmente ci rappresenta. Il suo è un tifare sommesso e mai troppo di parte, almeno fino a quello sfogo sincero, a dieci minuti dalla fine: “Non c’è niente di più duro che non poter essere sul campo a giocarsela e combattere”. Grande, grandissimo Bettega, juventino midollare e granitico, con una mano sul cuore e un occhio alla signorilità, anche nei momenti difficili. “Gran palla, gran palla veramente” è il suo commento all’assist di Borghi che propizia il secondo gol argentino. Un’ ammissione dolorosa che lascia trasparire anche un poco di emozione per la bellezza intrinseca di quella marcatura, seppur contraria. Ce lo siamo immaginati Roberto, quella notte, con la testa bianca e i pugni stretti sotto il tavolo, a soffrire fino all’ultimo, fino al rigore liberatorio di Platini che gli rompe la voce dall’emozione: “E la coppa va alla Juventus…”.
E’ ancora con noi Bettega, vent’anni dopo quel trionfo, relegato in società in un ruolo marginale, reo di portare su di sé il marchio kryptonitico della Triade. Ora osserva, mette la sua competenza al servizio dei nuovi padroni, studia giovani talenti in giro per l’Europa in attesa di scoprirne di nuovi e di far tornare grande la sua Juventus. Un immeritato confino per un tale monumento di storia bianconera. Ma poco importa, ci basta sapere che è ancora lì a lottare perché, noialtri, ce lo teniamo stretto ugualmente, senza cambiarlo di una virgola: dal colpo di tacco al Milan, alla bacchettata televisiva all’intoccabile Gianni Brera, dall’ingiusta squalifica prima del turoniano Juventus-Roma alle lacrime dell’ultimo giorno torinese della Juventus umbertiana e giraudiana. Il pianto disperato di un vicepresidente diventato, per un momento, quello di un tifoso qualsiasi che sente decenni di emozioni sciogliersi sotto i colpi dell’invidiosa italietta antijuventina.
Lo vogliamo così, elegante ed educato ma anche sfacciato e sicuro di sé fino all’antipatia. Come quella volta che se ne andò dagli studi Mediaset, sbattendo la porta in faccia alla malcelata avversità del conduttore di un programma del martedì sera. E ce ne vorrebbero cento, mille come lui. In campo, ma soprattutto dietro la scrivania.