Heysel, 29 maggio 1985: Andrea aveva 11 anni

heyselAndrea ha 11 anni e non sta più nella pelle. Suo padre gli ha trovato il biglietto della partita più importante dell’anno e potrà vedere da vicino tutti i suoi campioni più amati. Certo, il viaggio è un po’ lungo, da Cagliari al Belgio, ma ne varrà certamente la pena.
Francesco di anni ne ha 15 e vive in provincia di Napoli. È tifoso della Juventus da quando ne aveva 10, ma forse anche prima. Lui dice che a 10 anni per la prima volta non ha dormito una notte a causa dell'eliminazione della sua squadra al 90’ dalla Coppa delle Coppe e che, poi, la cosa si è ripetuta qualche anno dopo, nell’'83, nella finale di Atene. Ma stavolta è certo che le cose andranno meglio.
Andrea è arrivato a Bruxelles, il viaggio è stato stancante, ma adesso ha addosso tutta l’adrenalina del pre-partita. Suo padre Giovanni sta provando a fargli mangiare qualcosa, prima di entrare allo stadio, ma la sua attenzione è tutta rivolta verso quello che gli sta intorno. C’è gente, tanta gente con le sciarpe bianconere. Andrea domanda al padre se si conoscono già le formazioni, se Tardelli giocherà, pare che abbia un problema muscolare, forse parte dalla panchina…
Francesco è arrivato a casa di Alfio, un amico del liceo, dove vedrà la partita insieme ad altri compagni di scuola. Mentre entra nel cancello, incontra il padre di Alfio che sta prendendo la macchina per andare a comprare le pizze. “Sono già tutti sopra”, gli urla. Francesco sale a due a due le scale che lo separano dal secondo piano. Non fa altro che pensare a quella partita da una settimana, anche le ultime interrogazioni di greco sono andate un po’ così, ma la promozione dovrebbe essere cosa fatta. E’ che proprio non è riuscito a trovare la giusta concentrazione. Ma ormai ci siamo!
Andrea è entrato nella stadio. La prima cosa che ha notato è che lo stadio è piccolo, più piccolo di quanto si era immaginato. Piccolo e vecchio, pensa Andrea. Ma è un momento, poi ritorna a guardarsi intorno, affascinato da quell’atmosfera della finale. Prova a tenere dentro di sé ogni singola immagine, quando tornerà a casa dovrà raccontare tutto alla madre e ai suoi compagni di classe. Sul campo, poco fa, c’erano i giocatori. Suo padre gli ha indicato Platini, il suo preferito, quello del poster nella sua cameretta. Tardelli giocherà, in panchina ci va Briaschi.
Francesco si è portato dietro un suo portafortuna: un pupazzetto bianconero. Lo aveva con sé all’andata delle semifinali contro il Bordeaux ma non al ritorno e la Juventus aveva rischiato l’eliminazione. Ci crede a queste cose e, a rischio di essere preso in giro dai compagni, lo ha portato. Fosse stato per lui, avrebbe portato anche il poster di Platini che aveva attaccato sul suo letto, ma la madre lo ha convinto a non toglierlo. Tornando a casa, pensa, lo avrebbe abbellito con una fotografia della Coppa dei Campioni che aveva ritagliato la mattina dal giornale del padre. Quando entra in casa di Alfio, chiede subito se si conosce già la formazione e se Tardelli avrebbe giocato. Nessuno gli risponde.
Andrea adesso guarda preoccupato il padre che sta fissando alla sua sinistra. Non riesce a rendersi conto di quello che sta succedendo. Sa solo che quell’atmosfera di festa che fino a qualche minuto prima stava vivendo, non c’è più. Intorno c’è, adesso, uno strano silenzio, un silenzio ovattato, irreale per essere in uno stadio. Prova a guardare anche lui e quello che riesce a vedere è una specie di onda fatta di persone vestite di rosso che si allontana dalle reti di “protezione” del suo settore e, poi, con lucida follia, vi si scaglia contro cercando di farle cedere. Andrea guarda il padre e si accorge che in quello sguardo non c’è quella espressione che tante volte, nella sua vita, lo aveva rassicurato. Non prova nemmeno a chiedere che cosa stia succedendo, sa che il padre non ha una risposta per quella domanda. Non avrebbe mai immaginato che potesse esserci una domanda alla quale un adulto, un padre, non sapesse dare una riposta, ma adesso sa che è proprio così. Ed è una delle ultime cose che imparerà.
Francesco è seduto davanti al televisore. Sul tavolo c’è la pizza ma nessuno ha voglia di mangiarla. C’è Scirea che parla al microfono, ma lui non sta sentendo. Sta pensando alle volte che in questo mese ha chiesto al padre di andare a vedere la partita e si sente sollevato a pensare che non è riuscito a convincerlo. Guarda le immagini, Francesco, e pensa che in quel momento sta morendo una parte di sé, che in quel preciso istante sta perdendo quella spensieratezza che aveva riguardo al mondo dello sport. Sa che ci vorrà del tempo per mettere in ordine dentro di sé quello che sta accadendo a migliaia di chilometri di distanza ma che la televisione sta scagliando con prepotenza in quella stanza tra una pizza fredda e un pupazzetto bianconero, in un silenzio irreale.
Francesco sono io e Andrea è la più giovane delle 39 vittime cadute all’Heysel. Oggi, io ho l’età del padre di Andrea, anch’egli vittima della follia degli hooligans, e mio figlio Lorenzo è poco più piccolo di Andrea.
Ogni volta che penso di portare mio figlio allo stadio, mi torna in mente la storia di Andrea. Qualche volta ho anche provato a raccontargliela, sfidando il rischio di sentirmi fare qualche domanda alla quale non saprei rispondere. Perché ora lo so anche io: ci sono domande alle quali anche un padre non sa rispondere.
La sera dell’Heysel è una ferita che sanguina dentro ogni uomo che l’ha vissuta, allo stadio o seduto davanti al televisore. Nella notte dell’Heysel non sono morte solo 39 persone. Sono morti, dentro, tutti quelli che amavano il calcio. Niente e nessuno è stato uguale a prima dell’Heysel. Quella notte ha cambiato, per sempre, il modo di intendere lo sport.
Andrea e Francesco. Due giovani tifosi bianconeri che, in quella sera, hanno avuto due destini diversi. Andrea è rimasto schiacciato sotto la furia omicida di gente che con il calcio e lo sport non hanno nulla in comune. Francesco, da quella sera, sa di avere un compito: raccontare a Lorenzo, e a quanta più gente è possibile, la storia di un bambino, partito da Cagliari per assistere ad una festa, e mai più tornato per poterla raccontare.
Perché non accada mai più.