Una Juve barbarica

Agnelli e MarottsSi può immaginare una conversazione tra due uomini su un treno. L'uno dice all'altro:

- Che cos'è quel pacco che ha messo sul portabagagli?
- Ah quello, è un MacGuffin
- Che cos'è un MacGuffin?
- È un marchingegno che serve per prendere i leoni sulle montagne Adirondack
- Ma non ci sono leoni sulle Adirondack
- Bene, allora non è un MacGuffin!

Come vedi, un MacGuffin non è nulla
.


Così parlò il genio di Alfred Hitchcock. Per chi non sapesse cos’è un Mac Guffin, provi a pensare a Pulp Fiction e a quella misteriosa valigetta che i due gangster devono recuperare per conto del loro capo, o alla scatoletta blu di Mulholland Drive. Che cosa sono? Di fatto nulla, solo espedienti. Il Mac Guffin, nel cinema, è quell’oggetto che in un film sembra avere un’importanza decisiva ma che, alla fine, non ha nessun significato. Un trucchetto per tenere alta la tensione, sviare l’attenzione e, intanto, far procedere la narrazione su binari occulti, in barba all’ignaro spettatore.

Bene, se vi chiedete cosa abbia a che fare tutto questo con il pallone, allora non siete stati abbastanza attenti. Leggete il titolo di questo libro (il libro di Massimo Zampini, ndr): “Il gol di Muntari”. Che splendido esempio, un Mac Guffin perfetto.

Mun-ta-ri. E’ stato un grido, un lamento, un minaccioso Damocle, un tormento(ne) e una delizia. Crocevia di una stagione, quel gol si è fatto catalizzatore inverso delle ambizioni milaniste e, al contempo, occasione perfetta per tutto un popolo – quello juventino - di sciacquare i propri panni in Arno, chiudere un’epoca ed aprirne un’altra.

Dietro quel pallone (dentro di un metro) ha fatto perno un’intera tifoseria che, girandosi su se stessa, ha abbracciato attitudini e propensioni fino ad allora sconosciute. Mentre gli “altri”, dal più austero capofabbrica di redazione fino all’ultimo Cacasenno televisivo, davano di fionda e si arrotolavano in déjà-vu polemici, la Juve e lo juventino silenziosamente disfacevano i contrafforti del castello entro al quale avevano coltivato il proprio elitarismo piemuntés e il proprio residuale vittimismo: messo da parte lo sdegno e il reazionismo, il tifoso gobbo ha scoperto l’autoironia, lo sberleffo autoinflitto e l’inaspettato piacere del prendersi in giro. E insieme se ne sono volati via i sensi di colpa e quel po’ di serpeggiante fatalismo che ci aveva persuaso d’essere incomprese Cassandre, biliosi officianti di un culto perseguitato e maledetto.

Siamo cambiati noi, è cambiata la Juventus. Dopo Boniperti, dopo la Triade, dopo gli anni della prostrazione cobolliana e dell’amaro in bocca, la Vecchia Signora ha saltato in verticale, balzando quanticamente in un’inedita dimensione: nuovo stadio, nuove strategie, rinnovati ritmi e una gestione finalmente robusta e puntuta.

Il futuro sembra dalla nostra parte. Col declino del mecenatismo alla milanese e di certo presidentismo cafone, anche altri poteri e altre logiche han finito (o stan finendo) per segnare il passo. Al capolinea delle tv generaliste, delle intoccabilità giornalistiche e dell’opinione a confezione singola, è cominciata l’epoca (almeno in ambito sportivo) del pluralismo, dei canali tematici, di internet, dei blog e dei micrositi. Oltre Warhol, l’uomo comune non celebra più il quarto d’ora di gloria, ma metri quadri di territorio, visibilità digitali e ribellioni nel ciberspazio.

Dentro questo scenario si è sedimentata - e stratificherà ancora - una Juve barbarica, che si è fatta robusta e che di stare in testa al gruppo non si vergogna ma, al contrario, comincia a compiacersene. Una Juve che parla un linguaggio europeo, un idioma golosamente trendy e ancora tutto da scoprire.

Ed è proprio questo, questo rinnovamento inatteso e purissimo, che il gol di Muntari ha così magistralmente celato e che, per fortuna nostra, continuerà a celare. Un Mac Guffin in piena regola. Che gli altri si lascino affascinare, per noi ci sono nuovi film da girare, altre trame da tessere.