Conte tra un presente accettato e un futuro tutto da scrivere

ConteE’ stato lo stesso Conte a scrivere la parola fine alla strumentalizzazione mediatica di un tormentone caratteristico dei momenti in cui, emessi quasi tutti i verdetti, del calcio giocato ai più non importa granché: però nelle varie interviste post Samp-Juve si legge tra le righe anche quel che c’era dietro alle scarne parole dette dal duo Andrea&Antonio dopo il summit di metà maggio: “Abbiamo pianificato il ’13-’14… per continuare a costruire”. Poche parole, all’apparenza banali, ma che in realtà non lo erano: in fondo, da due mai banali come Andrea&Antonio, era logico aspettarselo.
Quindi chi, per suoi interessi, cassandrava una Juve senza Conte si rassegni: il Capitano juventino dentro resta qua; del resto ha un contratto fino al 2015. Fino al 2015: anche se non sarà facile trattenerlo oltre. E non è, come non è stata, una questione di soldi. Nelle orecchie risuonano come un’eco le parole dette a Mediaset da Conte (a proposito della necessità di sacrificare qualche eccellenza dell’attuale rosa) con assoluto realismo ma con una prossemica che non trasudava appagamento: “Queste sono domande che dovete fare a Marotta. Io sono l’allenatore e faccio l’allenatore e quindi non spettano a me queste considerazioni, spetta a Marotta e alla società prendere atto nel caso ci fossero richieste”. Ecco, Conte ha un contratto (un buon contratto, beninteso) come allenatore, vede le situazioni, le ha segnalate alla società, che ha ascoltato, e “la Società proverà a fare qualcosa poi, ripeto, c’è un bilancio da rispettare e quest’anno è ancora più dura dell’anno scorso”. Quindi nel ritiro estivo, o meglio, dopo il 31 agosto, il limite temporale per i saldi tanto cari a Marotta, dovrà allestire una formazione che punti al terzo scudetto consecutivo, ormai l’obiettivo apertamente dichiarato (che non vuol dire fosse quello vagheggiato) dal binomio Andrea&Antonio: e se arrivassero i Bendtner, gli Anelka e compagnia cantante bisognerà far buon viso a cattivo gioco. L’appuntamento col sogno è rimandato, magari di due-tre anni, quando la Juve potrà acquistare giocatori da 30-40 milioni: per ora, ha detto Conte a Raisport “ancora non ci siamo, l’anno prossimo non ci saranno”; ecco perché sembrano quantomeno futuribili quelli che vengono additati come obiettivi a breve della Juve, i vari Tevez, Higuain, Jovetic, ecc, tutti affari costosi già per il cartellino, cui poi andranno aggiunti ingaggi da top player.
Di acquisti doc si riparlerà quando verranno messi a disposizione quei mezzi economici di cui forse Conte sperava di poter disporre vista l’accelerazione impressa, grazie anche al suo lavoro, al programma iniziale dai due scudetti e dal buon cammino in Champions; si poteva sperare che almeno una parte dei guadagni imprevisti potesse essere reinvestita. Invece no, bisognerà ancora “fare di necessità virtù e cercare di vedere dove si possono spendere pochi soldi e magari prendere giocatori anche in prestito”: parole testuali, che non lasciano spazio non solo ai sogni, ma neanche alla tranquillità. Perché “il bilancio non è cambiato niente, anzi è molto molto tirato anche quest’anno”: la Juventus è un asset, e qua non si gioca mica a cricket. Bisogna restare entro il budget di 200 milioni tra stipendi e ammortamenti e, spulcia spulcia, senza cessioni, ma di quelle ‘fruttuose’ (e sappiamo come Marotta a rivendere sia ancor meno bravo che a comprare, non se lo filano) rimane attaccato ben poco, forse una gamba di un top player. Lo stesso Marotta già si aggrappa alla speranza (dichiarandolo, ahimè, in TV, contro ogni logica di mercato) che un Tevez (vista l’età e la durata del suo contratto) possa essere più abbordabile di un Higuain: anche se Carlitos fa l’occhiolino ai francesi sceiccati del PSG e a quelli del Monaco in salsa russa, che possono offrirgli lauti ingaggi (perché la Juve avrà pur riacquistato appeal, ma i soldi a palate ne hanno sempre di più).

Parole come pietre, quelle di Conte. Che danno un’idea del tenore del confronto interno in casa bianconera, con un Marotta, lo stopper schierato dalla proprietà a difesa di un bilancio quanto mai rigido e di gerarchie altrettanto cristallizzate nello schema di sempre. L’apparente insofferenza manifestata recentemente da Conte, e che qualcuno ha definito esagerata, potrebbe avere proprio qui le sue radici: “io sono l’allenatore e faccio l’allenatore”, non è questione di soldi e il contratto non è stato allungato; perché nemmeno Conte lo vorrebbe allungare, forse, al momento; lo vorrebbe probabilmente allargare invece, con un respiro più ampio per la sua opera. Perché Conte è indubbiamente un ambizioso: lo testimonia il modo in cui si propose, di sua iniziativa, due anni fa, alla Juventus, ad Agnelli in persona, con un approccio fatto di concetti chiari sulla sua idea di calcio e, perché no, anche sulla juventinità perduta; giocando sulle sue qualità “senza presunzione, ma con sincera determinazione”.

E’ uno che ha le idee chiare su cosa servirebbe per far tornar davvero grande la Juve. Idee chiare che aveva già nel 2009 quando si era per la prima volta aperto uno spiraglio per un suo arrivo alla Juve: non si concretizzò, perché Conte non è un Ranieri qualsiasi, uno che si accontenta di un Poulsen al posto di uno Xabi Alonso; e come andarono le cose merita di essere raccontato perché testimonia dello stato di sfascio in cui si trovava quella povera Juve; lo racconta proprio Antonio nella sua autobiografia (‘Testa, cuore e gambe’).

Sin dall’inizio dice a Secco cosa sarebbe servito: “Due esterni rapidi, bravi nell’uno contro uno, e una squadra che partecipa con gli undici sia nella fase difensiva che offensiva”. Per esempio, consiglia Robben e Walcott; ma la Juve continua ad inseguire Diego, pur se Conte aveva già sentenziato: “Nel mio gioco non è essenziale uno come lui”. L’inseguimento, sfortunatamente, ha successo e Alessio richiama Conte: “Ci è costato parecchio. Però tutti dicono che è bravissimo”. (sì, ahimè, funzionava così…); e gli viene fissato un appuntamento con Blanc, cui Conte, per ben cinque ore, spiega il suo calcio: “Offensivo, spettacolare, veloce, molto gioco sugli esterni. ‘Il centravanti non deve restare inchiodato al limite dell’area avversaria. Deve rientrare come gli altri. Persino il portiere deve giocare la palla. Da lui partiranno tutte le azioni. Prediligo il 4-2-4, che però si può trasformare anche in un 4-2-3-1 o 4-3-3. a seconda delle situazioni e delle qualità dei giocatori’”. Conte ci spera. Passano giorni e Secco gli chiede un nuovo incontro, proprio a casa Secco, dove l’uomo delle fotocopie gli annuncia che Diego è “abituato a giocare col 4-3-2-1. Quando gli abbiamo parlato del tuo modulo, ha manifestato poca convinzione. Preferisce giocare in modo diverso”. La risposta di Antonio non si fa attendere ed è quella che ci si aspetterebbe da lui (non da un Ranieri qualsiasi): “Voi dovete fare le vostre scelte. Ma se un giocatore, chiunque egli sia, riesce a condizionarle, probabilmente siete sulla strada sbagliata. Se questo si verifica, io non posso essere il vostro allenatore. Dovete scegliere qualcun altro”. La scelta sarà la conferma di Ferrara e il seguito lo sappiamo.

Adesso, maggio 2013, siamo al punto in cui Conte, per due stagioni, ha fatto quello che lui definisce ‘qualcosa di straordinario’, riuscendo, con l’organico imbanditogli, a vincere due scudetti e una Supercoppa e a raggiungere i quarti di Champions; in queste condizioni è consapevole che andare oltre va anche al di là del miracolo; però la voce del padrone è stata chiara: ‘Bisogna fare ancora di necessità virtù’. E allora ecco il ‘continuare a costruire’, detto proprio da Antonio nel duetto con Andrea, l’accettazione di una realtà di fatto (da parte sua ma anche di Andrea). Si ‘costruirà’, ma senza la pretesa di arrivare al tetto, cioè al top anche in campo internazionale; l’obiettivo (quanto vicino lo diranno anche le campagne di mercato delle dirette concorrenti) è triplicare lo scudetto; si metteranno altri mattoncini, in attesa di tempi migliori, intorno, nella migliore delle ipotesi, ai due o tre anni, quando la proprietà, una volta che la Juventus avrà fatto il suo dovere di asset (“La sfida resta quella di trasformare le buone notizie del campo in migliori risultati finanziari", sono recenti parole di John Elkann), potrebbe anche (il supercondizionale è d'obbligo) dare il via a qualche investimento serio. Anche se forse su quella panchina non troverà più Conte, che potrebbe essersi stufato dello stato dell’arte. Del dover sempre inchinarsi, arte in cui nella sua autobiografia ‘ammette’ di non essere bravo: “Si parla di me come di un allenatore bravo ma difficile da gestire, e non è del tutto falso: se essere facili significa inchinarsi davanti a decisioni che non si condividono o non si ritengono logiche senza poter esprimere la propria opinione, allora sì, sono molto difficile da gestire”.
C’è da credere che sapesse benissimo quel che diceva quando, sia pur trascinato dall’entusiasmo dei tifosi (anzi a maggior ragione trovandosi in una condizione che lo liberava dai freni inibitori della diplomazia) che innalzavano lo striscione “Ferguson:United=Conte:Juve”, ha detto a Catanzaro: "Questo sicuramente è un bellissimo augurio perché sappiamo benissimo cosa Ferguson ha rappresentato e rappresenta tuttora per il Manchester; sicuramente è un grandissimo manager da cui per me c'è solo da prendere esempio e spero di emularlo nelle vittorie e nella gestione; mi auguro di essere anch'io per la Juventus quello che Ferguson ha rappresentato per il Manchester". Non erano solo i lunghi anni trascorsi da sir Alex sulla panchina dello United ad attrarlo, ma l’ambizione di emularlo anche nella gestione; e se non sarà alla Juve, è stato chiaro: lui è un professionista e presterà la sua opera a chi crederà in lui; aspira all’Inghilterra, dove questo ruolo di allenatore-manager è ampiamente collaudato, ma non si preclude alcuna via, estero o Italia che sia.
Perché per Conte, come dice a sigillo finale della sua autobiografia “Il futuro inizia oggi. Non camminerò mai solo. E ora andiamo in campo a vincere”.


Twitter: @carmenvanetti1