Come te nessuno mai – Volume 1 (1994-1999)

Io amo il calcio spagnolo. Le dico, ad esempio, che il Real Madrid voleva ingaggiarmi due volte, ma non potevo andarci perché ero alla Juventus e quando sei in quel club non pensi a nient'altro".
Intervista di Juan Castro a Marcello Lippi per "Marca.com"


E’ notizia di qualche giorno fa il ritiro come allenatore di Marcello Lippi, ritiro annunciato dopo la vittoria del terzo scudetto cinese del mister viareggino. Si potrebbero sprecare mille parole ed agiografie sulle vittorie, le sconfitte, i ricordi, gli aneddoti che hanno costellato le varie Juventus lippiane. Si potrebbe, ma non lo farò perché preferisco raccontarvi il “mio” Marcello Lippi, così come ogni juventino potrebbe raccontare il suo.  
Nel 1994 io ero un bambino che si affacciava al mondo del pallone, incuriosito ed affascinato da quella maglia bianconera per la quale il papà faceva il tifo da sempre. Nonostante la giovanissima età me la ricordo bene la prima Juve di “Marcellone nostro”: si veniva da nove anni senza scudetto e c’era appena stato un importante cambio dirigenziale, con la “Triade” che aveva preso il posto del presidentissimo Boniperti, scelta dal dottor Umberto Agnelli con l’obiettivo di risanare i conti e di vincere senza aumenti di capitale. Era la Juve di Vialli, Ravanelli, Baggio, il primissimo Del Piero, Paulo Sousa, Conte, Deschamps, Torricelli, Ferrara, Kohler, guidati da un allenatore talentuoso ma alla prima esperienza con una grande squadra e venuto a sostituire un “mostro sacro” come Trapattoni. Una Juve su cui all’inizio avrebbero scommesso in pochi e che doveva vedersela con uno squadrone come il Milan campione d’Europa di Capello e l’ottimo Parma di Nevio Scala che si rivelerà il principale avversario di tutti gli obiettivi juventini. Ricordo benissimo la magnifica rovesciata di Vialli a Cremona, le solite pretestuose polemiche (allora come oggi) sul gol di Ravanelli contro la Roma, la rimonta a Torino contro la Fiorentina con il magnifico gol di Alex Del Piero, la roboante vittoria per quattro a zero all’ultima giornata contro il Parma, contro cui si vincerà anche la Coppa Italia, ma a cui si lascerà la Coppa Uefa. Il 21 maggio del 1995 era il giorno in cui festeggiavo  comunione, compleanno ed onomastico insieme; ero al ristorante con i parenti, ma nella mia testa di bambino c’era solo la felicità per quel primo scudetto targato Lippi. Una squadra talentuosa, tosta, con tanti attributi, ma che giocava bene a calcio nella quale le parole d’ordine erano lavoro di gruppo e spirito di sacrificio. Simbolo di quella Juve è stato il suo tridente formato da Baggio, Vialli e Ravanelli che pressava a tutto campo e correva a centrocampo a dar manforte ai compagni per recuperare palla e ripartire. Nell’estate del 1995 la Juve cedette Baggio al Milan per lanciare definitivamente il giovane “Pinturicchio”, una scelta rivelatasi azzeccatissima, mentre arrivarono ottimi giocatori come Jugovic, Lombardo, Vierchowod e Michele Padovano, oggetto di scherno dei tifosi avversari in estate, ma scopertosi poi attaccante dai gol pesanti durante la stagione. A inizio stagione nessuno lo diceva apertamente ma, come lo stesso Lippi ebbe a dichiarare in seguito, in casa Juve c’era una gran voglia d’Europa. Noi tifosi avemmo la stessa sensazione nel vedere la nostra squadra piallare regolarmente le avversarie nel girone eliminatorio, per emozionarci poi nella fantastica cavalcata verso la finale di Roma. Un avvincente quarto di finale con il Real Madrid e una vittoria meritatissima nel doppio scontro col Nantes in semifinale ci portarono a Roma contro un avversario forte e titolato come l’Ajax, sebbene a fine ciclo. La finale di Roma e il rigore di Jugovic ce li ricordiamo tutti, io la vidi a casa con un amico milanista ed andai a dormire più tardi del solito e felice “come una pasqua”. Marcello aveva riportato la Juve sulla cima d’Europa, gestendo abilmente un gruppo ormai rodato e duttile che si adattava a meraviglia alle idee del mister viareggino.
La stagione 1996-97 è stata, a mio avviso, quella che ha consacrato la Juve più forte degli ultimi 25 anni almeno ed una delle più forti di sempre. La rosa campione d’Europa venne sensibilmente modificata: partirono Vialli, Ravanelli, Sousa, Carrera e Vierchowod, arrivarono i giovani Vieri ed Amoruso, Paolo Montero, Alen Boksic ed uno dei più grandi giocatori della nostra Storia, preso per “pochi spicci” e semisconosciuto: Zinédine Zidane. Mister Lippi, a differenza di altri grandi allenatori a cui piace disquisire su ristoranti, macchinoni e macchinine, non fece una piega di fronte a quelle cessioni illustri e ci mise poco a far girare questa nuova Juventus. Lo scudetto tornò a Torino, così come Coppa Intercontinentale e Supercoppa Europea (il sei a uno a Parigi, che goduria!) e, grazie alle giocate di campioni come Zizou e Del Piero, la compattezza di un centrocampo magistralmente diretto da Deschamps ed alimentato da Conte, Di Livio e Jugovic e l’impenetrabilità di una difesa dove spiccavano i centrali Ferrara e Montero, si tornò per la seconda volta consecutiva in finale di Champions League, dopo aver letteralmente goduto in un mese di aprile dove andammo a battere l’Ajax ad Amsterdam senza attenuanti e rifilammo sei gol al Milan a San Siro. Io una Juve forte e bella come in quel mese di aprile del 1997 non l’ho più vista.  Questa volta però a Monaco ci aspettava il Borussia Dortmund e noi, campioni d’Europa e del Mondo in carica, eravamo i favoriti. Io, che ero gasatissimo ed avevo passato tutta la stagione indossando appena potevo la maglia della Juve dell’anno prima, ero sicuro del nuovo trionfo. Invece, in una partita maledetta, come disse Luciano Moggi: “la Juve B ha battuto la Juve A”. Un Borussia pieno zeppo di ex bianconeri ci aveva beffato. Io vidi la partita a casa come l’anno prima, ma questa volta spaccai il piedino del divano con un calcio al gol di Ricken. Ricordo come se fosse adesso la rabbia e l’amarezza per quella sconfitta.
La stagione 1997-98 vide l’avvicendamento nell’attacco bianconero di Vieri (venduto per una cifra record all’Altetico Madrid) con Pippo Inzaghi, fresco capocannoniere con l’Atalanta e l’arrivo nel mercato di gennaio di un altro grande campione a centrocampo: Edgar Davids, scaricato dal Milan e bollato come “mela marcia” dallo spogliatoio rossonero. E’ il famoso "campionato dei piagnoni", passato alla storia come quello del “rigore di Ronaldo” e delle accuse interiste. Un campionato in realtà meritatamente vinto ancora una volta dalla squadra di Lippi  all’interno di una stagione in cui arrivammo clamorosamente alla terza finale di Champions consecutiva, dopo esserci però qualificati per il rotto della cuffia, allo scadere dell'ultima partita del girone eliminatorio, grazie ad un gol dell'Olimpiacos sul Rosenborg. Mai una Juventus si era imposta così prepotentemente in Europa: quattro finali europee in quattro anni. Questa volta l’avversario aveva un gran blasone: il Real Madrid di Raùl, Hierro e compagni ci sfidava ad Amsterdam. Io ormai ero alle medie e quel mese di maggio lo ricordo nitidamente per le accuse pesanti ed offensive che i miei compagni, per lo più gli interisti, lanciavano alla Juve dalla partita contro l’Inter. La finale col Real non poteva che finire come è finita: una gran quantità di occasioni sprecate ed un gol madridista in fuorigioco clamoroso che nessuno si è più ricordato. Col senno di poi ho pensato tante volte a quella partita come un segno del destino che preannunciava ciò che sarebbe successo nel 2006. Comunque mi sentivo tranquillo perché Marcello Lippi era diventato ormai una specie di taumaturgo che riusciva a far girare sempre un giocattolo che ogni anno gli veniva smontato e rimontato.
L’estate del 1998 è passata alla storia juventina per le accuse di doping da parte di Zeman, accuse che fecero scaturire il conseguente processo istruito da Guariniello. Ricordo bene la rabbia negli occhi di Lippi che difendeva strenuamente la sua squadra ed arrivò anni dopo persino a dirle in faccia a Zeman durante una trasmissione televisiva. “Il nostro doping è il lavoro” ripeteva spesso, e direi che tutta questa faccenda meglio non si potrebbe riassumere. Nel frattempo per i miei compagni di scuola eravamo diventati anche dopati oltre che ladri; e giù merda gratuita sulla squadra che aveva stradominato ovunque negli ultimi quattro anni. In quella stessa estate però Marcello, come dirà poi, aveva capito che il suo ciclo alla Juve era finito, quindi chiese di poter andare via. Solo la richiesta del dottor Agnelli di rimanere un altro anno riuscì a trattenere il mister. Forse sarebbe stato meglio assecondarlo: infatti dopo un buon inizio, la stagione 1998-99 fece registrare il famoso grave infortunio di Alex Del Piero, ormai uomo simbolo della Juventus, e una discesa sempre più inesorabile in classifica che portò alle dimissioni del mister dopo una sconfitta a Torino contro il Parma. Sembrava una maestosa avventura finita per sempre e il conseguente approdo di Lippi all’Inter di Moratti pareva certificare questa sensazione. Ma, per fortuna, “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”.