Dove eravamo rimasti?

Del PieroDi simile a quel febbraio 2006 quando Alex Del Piero mostrò la lingua allo stadio stracolmo di baùscia, dopo che Luciano Moggi aveva teleguidato con il telefonino il suo calcio di punizione all'incrocio dei pali, stavolta c'è stato ben poco.
Anche questa è una delle tante cose che non perdonerò mai a calciopoli: l'avermi tolto il piacere del prima, del durante e del dopo di serate come quella di sabato sera, che quasi sempre equivalevano a scrivere la parola fine sul campionato, destinazione paradiso.
Se c'è una ragione per la quale spero che questo exploit sia servito a qualcosa, è solo la speranza che gli esauriti di Onestòpoli finiscano col perdere un campionato che soltanto loro, nello stato in cui versa attualmente il calcio italiano, potrebbero riuscire a non vincere.
A questa vittoria non riesco ad attribuire un significato che vada più in là di questo. Perché del gol di Camoranesi in fuorigioco di mezzo metro avrei goduto solo prima, oggi no. Oggi, se ho capito bene l'antifona, è stato solo un errore, un incidente di percorso del guardalineee, quindi che gusto c'è?
Del gol clamorosamente mancato da Del Piero, con il quale si sarebbe chiusa a chiave la partita con un punteggio imbarazzante e che invece ha rischiato di compromettere tutto, sarei rimasto deluso solo prima. Oggi che gusto c'è?
Lasciamo perdere la retorica dell'onore e dell'orgoglio, per carità. Non erano certo i novanta minuti di S. Siro il luogo e il tempo dove, casomai, si sarebbero dovuti riconquistare l'uno e mostrare l'altro al mondo intero.
Lasciamo perdere la retorica del valore simbolico di un qualcosa che tutto quel valore, in fondo, non ce l'ha. Perché è inutile voler cercare dei simboli laddove non si è fatto nulla per difendere e proteggere "il" simbolo.
Rispetto a quel febbraio 2006 è cambiato quasi tutto, tranne il punteggio finale: 1-2 allora, 1-2 sabato sera. Almeno per noi.
Per loro, invece, non è cambiato quasi nulla. Chi nasce tondo, non muore quadrato.
Hanno approfittato della collaborazione di tutti, compresi i nostri esilaranti nuovi gestori col sorriso, per debellare il male che li affliggeva. Hanno cominciato a vivere, liberi finalmente di potersi prendere ciò che spettava loro da sempre. Poi, dopo due anni, è bastato rivedere la fotografia di quel male (perché questa Juve non è altro che l'immagine statica e sbiadita di quella che li aveva sempre terrorizzati), per ammalarsi di nuovo.
Mi domando a cosa sia servito, nelle loro teste almeno, lo sconquasso immane di quell'estate, se non a spegnere la passione di chi non meritava di perderla. Ogni tanto mi rileggo il sottotitolo del mio blog, Ciò che resta di un'estate che non ho capito. Anzi, sì.
Quella frase è la sintesi di un anno di pensieri (dal 2006 al luglio 2007, quando nacque venti9), durante il quale passai faticosamente dal disorientamento alla confusione alla consapevolezza, perlomeno nei confronti di certi omuncoli. E' un concentrato di emozioni che abbiamo vissuto in tanti, e di altre che mi tengo per me. Ma a pensarci bene, tra quei pensieri che la ispirarono, non ce n'era nemmeno uno che riguardasse il campo, le partite, i novanta minuti.
Dopo aver visto e sentito i commenti alla partita di sabato sera, mi risulta un po' più facile da capire - ma ancora più difficile da accettare - a cosa diavolo sia servita quella dannata estate.
Pochi minuti dopo il fischio finale, sul telefono di un mio amico è arrivato un messaggio. Era di un interista il quale, grazie ad un regalo del destino, non ha potuto assistere alla partita: "Ho appena saputo del furto che avete commesso. Bravi, complimenti!"
Praticamente la versione hard di quanto avrebbe dichiarato, pochi minuti dopo, il raccomandato col ciuffo ai giornalisti.

Chi nasce tondo, non muore quadrato.