Cordoglio e controsensi

Franco SensiE’ stucchevole notare quello che sta accadendo per commemorare la memoria di Franco Sensi. Un uomo come altri, fatto di carne e ossa come altri, come tutti con pregi e difetti, secondo alcuni più accentuati i primi, per altri assolutamente preponderanti i secondi. La cosa che lascia più sbigottiti è questo patetico “coccodrillismo”, male diffuso in questo povero paese, per il quale l’uso della minuscola è d’obbligo.
Rappresentanti del mondo sportivo e, soprattutto, di quello politico che rilasciano dichiarazioni buoniste e accorate, per ricordare la figura di una persona, che contrastano fortemente con la realtà dei fatti. Come esempio citiamo le parole del capo dello sport, Gianni Petrucci: "Dirigente serio e preparato, Sensi ha ricoperto, con innegabile capacità, un ruolo nevralgico nei delicati equilibri del sistema calcistico, contribuendo a creare un modello virtuoso di gestione che ha saputo fare della Roma una realtà affermata a livello internazionale". Frase che si potrebbe anche condividere, se non contenesse quel "modello virtuoso di gestione" che fa a pugni con la realtà economica romanista, nota a tutti.
Sensi è sicuramente stato un gran padre, si vedeva dall’amore che la moglie e le figlie manifestavano nei confronti della sua persona, la premura che mostravano verso quel marito e padre che non riusciva più ad essere battagliero, agguerrito e persino dispotico come ai bei tempi in cui minacciava tutto e tutti, dalle filippiche contro il “vento del Nord” alle profezie di oscure maledizioni lanciate contro i suoi nemici, colpevoli di giocare sporco in un mondo dove lui si definiva una mosca bianca.
Laureato in matematica, erede di un’antica famiglia di origine marchigiana diventata benestante grazie alla transumanza, Sensi, classe 1926, nasce un anno prima della fondazione del sodalizio giallorosso. Tra i fondatori del club c’è il padre Silvio, che gli trasmetterà la passione per i colori della squadra capitolina. Nella vita di Sensi la Roma ha sempre avuto un posto importante, almeno pari al lavoro, ramo petrolifero, e nel 1993 riuscì finalmente a coronare il suo sogno, inizialmente rilevando insieme al socio Mezzaroma le redini della società dall’imprenditore delle acque minerali Ciarrapico; pochi mesi dopo rimase solo al comando, iniziando un’escalation che, tra alti e bassi, si è conclusa ieri.
Irruppe nel calcio come un ciclone, denunciando lo strapotere delle grandi del Nord e mettendo nel mirino Luciano Moggi e la Juventus, con il "direttore" reo di aver abbandonato la Roma per accasarsi proprio con i ladri de “er go’ de Turone”, portandosi dietro Paulo Sousa e Ferrara, a suo dire scippati alla causa giallorossa. Poi, mentre altri vincevano scudetti e Champions League, lui alternava Mazzone a Zeman, Pivotto a Petruzzi, Bartelt a Fabio Junior (alcuni giocatori arrivati con documenti di dubbia provenienza), sbraitando contro le ruberie della Juve e il conflitto di interessi del Milan. Memorabile la scena di quel freddo pomeriggio torinese in cui la Roma incontrò la Juve di Lippi. Sensi si "attaccò" ai guanti di Aldair e ad uno scontro (secondo lui, volontario) con un guardalinee che avrebbe causato l’errore del brasiliano nel rimettere in gioco la palla che Ravanelli trasformò in rete. Per la cronaca la gara finì 3-0 per la Juve. E come dimenticare le minacce profetiche del tipo: ”La Juve è finita, il futuro è nostro. Abbiamo un marchio conosciuto in tutto il mondo, Roma”.
Intanto, fedele alla moda del periodo, diventò proprietario di più squadre, come il Palermo e il Nizza; uno sport diffuso che lo accomunò ad altri vulcanici presidenti quali Gaucci e Preziosi, pure loro proprietari o soci di diversi club in contemporanea. Che questi club abbiano tutti attraversato momenti di grave ed estrema difficoltà economica, dopo il distacco dall'impero sensiano, sarà un caso?
E la questione diritti tv? La sua Roma valeva talmente più della cifra che Tele+ era disposta a riconoscergli che si inventò la società SDS, diventando socio della piattaforma Stream, insieme ad altri illuminati imprenditori (Cecchi Gori, Tanzi, Cragnotti). Sappiamo tutti come finì la storia, con l'intervento di Murdoch ad assorbire le due emittenti e a salvare capra e cavoli. Anche in questo caso conosciamo il destino che ebbero i tre compari "satellitari" del presidente giallorosso. Quantomeno sceglieva male i compagni di cordata.
Anni difficili, con i soprusi del Nord che continuavano e il nemico numero 1 individuato oggi a Milano e domani a Torino. Gli anni delle 7 sorelle e del doppio designatore, voluto proprio da lui, Sensi, che per sfiducia nei confronti di una corrente impose Pairetto a chi invece voleva Bergamo, ritenuto troppo vicino alla corrente “nemica”. Gli anni dei Rolex d’oro. Baci e carezze con il presidente Moratti, l’altro Gran Signore del lotto, entrambi petrolieri ed entrambi abituati a gestire con generosità le proprie società, utilizzando il patrimonio personale per rinforzare la squadra, impegnando persino beni personali (nel caso del presidente romanista) per rattoppare una barca più volte vicina ad affondare sotto i colpi dei sempre lungimiranti e disponibili creditori e scongiurare un fallimento che altri hanno subìto per molto meno. Ma anche con Moratti, oggi diventato il Signore al quale concedere, senza colpo ferire, un pezzo del mosaico giallorosso ogni anno, ci sono stati momenti di discussione. Sempre con stile, comunque, come nel caso del trasferimento di Batistuta all’Inter, quando il presidentissimo dichiarò che "Batigol era una fregatura", o ancora "È stata un'azione tecnica di furbizia da parte della Roma, cosciente di dare una fregatura. Se poi è stata data è un'altra cosa, questo non lo so". Il destinatario dell'elegante furbata, l’altro principe dello stile, abituato a certe manifestazioni di signorilità in tribuna, all'epoca avrà sicuramente apprezzato.
Ma un così innamorato presidente meritava uno scudetto, che puntualmente arrivò nell’anno di grazia 2001. Uno scudetto targato Capello, lo scudetto delle spese faraoniche, delle impossibilità economiche rese miracolosamente possibili, delle regole cambiate in corsa alla vigilia delle gare decisive, di Capitalia e delle plusvalenze di centinaia di milioni ottenute con sconosciuti ragazzini del vivaio. Lo scudetto del Circo Massimo, lo scudetto del dirigente virtuoso laureato in matematica, ma che la matematica deve averla un po’ dimenticata quando si è visto sfuggire di mano il giocattolo e la situazione.
Le trattative (vere o presunte) con fantomatici compratori russi o americani, con il popolo giallorosso (lo stesso che oggi a parole lo piange) che arrivò qualche settimana fa a sottoscrivere una petizione con migliaia di adesioni per convincerlo a togliere il disturbo e cedere allo straniero la società, per sognare i Messi o i Fabregas di turno. Lui, il presidente che combattè i “poteri forti” con il fido Baldini, inibito per i suoi metodi operativi nientemeno che dall’UEFA per il caso Mexes e costretto a saltare una sessione di mercato per questo. E a corollario di tutto questo, che dire della sua opera di pompiere nella delicata questione “violenza negli stadi”. Un ambiente stupendo quello che la tifoseria romanista porta in giro per l’Italia; altrettanto stupendo l’ambiente che un tifoso non romanista in generale e juventino in particolare vive a Roma da anni; non parliamo dell’accoglienza allo stadio o nel viale al di fuori dello stadio, quando non in campo (Cufrè, Dacourt, ecc).
Ma ora è il momento di rendergli onore, e quindi subentri il silenzio e il rispetto per l’uomo.
La Roma e il tifo calcistico vengono dopo e, in questo senso, non possiamo che appoggiare la lodevole inziativa delle istituzioni che, dopo aver sempre dato una mano a questo patrimonio nazionale che il presidente ha amato così tanto, si sono dichiarate pronte ad aiutare la Roma a costruire lo stadio della società. Alla faccia della libera concorrenza.


Nota. Vi consigliamo di leggere anche il parere di Trillo, sul suo blog:

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